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ROMA : NUOVA ITALIA SCIENTIFICA, 1994
23 luglio 2019 alle 14:56
Prova ontologica
«Il modo di prova del conoscere finito, presenta, in generale, questa stortura, che si debba addurre un fondamento oggettivo [il mondo] dell'essere di Dio, il quale diventa perciò un mediato da un altro». In realtà, nell'assumere il mondo come contingente «è implicito che esso sia soltanto alcunché di caduco, di fenomenico, e un niente in sé e per sé». Nel tipo tradizionale di prove, questo punto di partenza appare invece come un saldo fondamento che deve essere lasciato nella forma empirica, in cui dapprima si presenta: «la relazione del punto di partenza con il punto finale, al quale si procede, viene rappresentata così come solamente affermativa, come un inferire da uno che è e resta, ad un altro, che ugualmente è».
L'errore più grande consiste nel fatto che le prove, così formulate, si attengono al solo lato affermativo e «non esprimono, o piuttosto non mettono in rilievo, il momento della negazione», che è invece l'elemento essenziale della mediazione speculativa. Intese nel loro significato più profondo, le prove non sono certo un esercizio intellettualistico, ma contengono l'elevazione dello spirito umano verso Dio, esprimono il procedere dello spirito che pensa il sensibile: «L'elevazione del pensiero , il progredire di esso aldilà del finito verso l'infinito, il salto che vien fatto col rompere la serie de sensibile, nel soprasensibile, tutto ciò è il pensiero stesso; questo trapasso è soltanto pensiero. Dire che questo trapasso non debba essere fatto, è dire che non si debba pensare» Enciclopedia § 50 ann.
Se l'elevazione implica salto e rottura. Sprung e Abbrechung, ciò significa che il pensiero non lascia il suo punto di partenza nella sua prima forma empirica, ma esercita «un'attività negativa su quel fondamento» ed è proprio in tale negatività che emerge il significato della mediazione. Hegel afferma: «Questa elevazione, essendo trapasso e mediazione, è insieme superamento del trapasso e della mediazione, perché ciò per mezzo di cui Dio potrebbe sembrare mediato, il mondo, è invece dichiarato per il nulla: solo la nullità dell'essere del mondo dà la possibilità dell'elevazione, cosicché ciò che è come mediatore sparisce, e così, in questa mediazione stessa, è tolta la mediazione».
23 luglio 2019 alle 15:48
La riforma hegeliana delle prove dell'esistenza di Dio ha quindi il suo nerbo speculativo in una mediazione che non dall'esterno e in virtù di un potere estraneo, ma in se stessa si toglie come mediazione e tuttavia proprio nel punto in cui «finisce col togliere via se stessa, non ha perciò qual risultato il nulla»
Unificazione dei processi di verità e nulla
Sulle prime, il concetto sembra essere un terzo rispetto all'immediatezza dell'essere e alla riflessone dell'essenza e, come tale, esso sembra essere il risultato del loro divenire. In realtà, il concetto non è qualcosa di posto dall'essere e dall'essenza e che abbia quindi la sua essenza «altrove», ma al contrario, sono l'essere e l'essenza che sono tramontati e contenuti nell'unità del concetto come nella loro base e verità. Essere e essenza hanno ciascuno una propria distinta determinazione solo «in quanto non sono ancora rientrati in questa loro unità»; solo a causa di tale “non ancora” possono apparire come «l'esposizione genetica del concetto» o presentarsi come il «divenire del concetto. Per dissolvere questa apparenza è sufficiente ricordare che il divenire ha, come dappertutto il divenire, il significato di essere la riflessione di quello che passa nel suo fondamento, e che quello che sulle prime sembra un altro in cui il primo è passato, costituisce la verità di questo». Nonostante quelle che potrebbero essere portate come testimonianze in contrario di tanti hegeliani, questa essenziale caratterizzazione della mediazione speculativa costituisce una sorta di rimeditazione e di riformulazione, da parte di Hegel, della fondamentale dottrina aristotelica dell'anteriorità dell'atto alla potenza. Ciò che si presenta come «genesi», «sviluppo» o «divenire» e quindi come passaggio dal più imperfetto al più perfetto, dall'indeterminato al determinato, dalla potenza all'atto, è in realtà l'explicatio di un atto originario, che riassorbe dentro di sé il mezzo attraverso cui esso si manifesta.
L'assoluto, pur sembrando scaturire dal movimento dell'essere e dell'essenza, è la loro ragion d'essere e si mostra come qualcosa che «comincia presso di sé, come fa capo a se». Tutto ciò che precede è, rispetto ad esso, qualcosa di finito che ha l'assoluto come “fondo” e a cui l'assoluto conferisce sussistenza. Ma, di nuovo, tale sussistenza non ha il significato di assicurare al finito una qualche forma di esistenza indipendente a fronte dell'assoluto. Al contrario, la relazione del finito all'assoluto ha unicamente il senso della “trasparenza”: il finito adempie compiutamente al proprio compito quando in esso non è presente più nulla che possa impedire o intorbidare il perfetto assorbimento da quello che appare attraverso lui.
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